– Sembrano
altri tempi, altri mondi da quando Annibale pianse la sua Cartagine e si
inchinò alle aquile romane – disse il vecchio, piantando il suo bastone
nell’arida terra.
Il sole, ad ovest, oltre la piatta linea dell’orizzonte stava
tramontando incendiando di rosso la polvere proveniente dal vicino deserto.
– Eppure in
me scorre il sangue di quel popolo fiero – continuò, mentre il ragazzo lo guardava.
L’ombra curva del vecchio cadeva su quella lunga e dritta del bastone.
– Come vedi
il tempo non ha molta importanza qui da noi. – la voce dell’uomo era secca,
come l’aria piena di polvere.
– E poi, –
chiese il ragazzo – dopo l’aquila chi venne? – gli occhi del vecchio si
strinsero appena, forse per il riflesso del sole o forse per riordinare meglio
i ricordi.
– L’aquila
rimase tanto tempo. Gli artigli romani entrarono a fondo nella carne di queste
terre. Trovarono le nostre foreste, i nostri campi e anche il nostro deserto,
belli e accondiscendenti, proprio come le nostre donne. E con le nostre donne
mescolarono i loro semi e i tratti di Annibale, che a sua volta aveva in sé il
sangue dei primi abitanti del mondo, i cittadini di Ur, mutarono per fare spazio
al nord e al sud del mondo. Ma anche l’aquila cadde, stanca del suo millenario
volo fu travolta dalla forza e dalla dirompenza della mezzaluna. Gli antenati
di tua madre calpestarono questo stesso suolo proprio in quel tempo. Essi
portarono la cultura e la spada, la matematica, l’astronomia, il fuoco greco, i
riti lontani e antichi quasi quanto il loro stesso dio e a lui innalzarono
minareti e santuari di una bellezza straordinaria, una bellezza che dura ancora
oggi e che sembra magica. Poi tornarono gli uomini del nord e dell’est, levando
al sole la croce e spargendo sangue sulla terra. Anch’essi portarono il
loro sapere che trovò ad attenderlo, come fratelli da millenni divisi, quello
di tutti gli uomini che per secoli li avevano preceduti. Eppure quel tempo
sembra lontano, un altro mondo, un’altra storia. – il vecchio smise di parlare,
chiuse gli occhi aspettando il fresco che la notte avrebbe portato sulla sua
terra e sulla sua pelle solcata da rughe.
– Ma perché nonno, tutto il mondo
viene, prima o poi, qui da noi? – chiese il ragazzo approfittando del silenzio.
– Forse
perché la nostra terra è la più bella di tutte? –
– Forse –
disse il vecchio con un pizzico di orgoglio mentre riapriva gli occhi – o forse
perché questo è il destino di chi abita le terre magiche come la nostra.
– La nostra
terra è magica? – chiese il ragazzo fingendo stupore. Aveva sentito quella
storia migliaia di volte eppure gli piaceva sentirsela raccontare, gli sembrava
che parlasse di lui, della sua famiglia, dei suoi amici e di tutta la sua casa.
– Sì,
Carlos, è così. Tutte le terre che sono al confine del mondo sono magiche,
poiché esse sono la porta d’ingresso e di uscita per altri mondi, altre terre,
altre storie. Su questa polvere, sulle nostre acque, sulla nostra nera e grassa
terra si combatte da sempre per la sorte dell’intera umanità. Quello che
succede qui si propaga come il vento del deserto, oltre le montagne e i mari
fino ad arrivare dentro la casa di ogni uomo e donna. Probabilmente succede la
stessa cosa anche dall’altra parte del mondo, questo non lo so, sono zone troppo
lontane per la mente di un vecchio, anche se ha viaggiato tanto come me. Per
questo gli uomini di Ur sono giunti qui da noi, poiché nei tempi antichi forte
era il richiamo della magia nei cuori degli uomini. Ora sono in pochi a saperla
ascoltare ed ancora meno a saper parlare con essa ma chi ne è in grado ha un
grande potere, ed una grande responsabilità. Tieni sempre a mente queste parole
figliolo. –
– Certo
nonno lo farò. – rispose il ragazzo impettito. Sapeva che quei consigli erano
per lui, poiché egli, seppure ancora giovane, sentiva quella voce, quel
richiamo ogni giorno più chiaramente.
– C’è già
chi cerca di zittire per sempre chi è in grado di piegare la natura al proprio
volere, perché ne hanno paura. Li accusano di cose riprovevoli e meschine e
forse qualche volta hanno anche ragione a farlo, danno loro la caccia e in
alcuni casi li uccidono col fuoco. Sono sciocchi poiché non sanno che senza lo
studio, senza l’applicazione quotidiana e senza la ricerca, il dono non basta.
Spesso una sola vita non è sufficiente neppure ad afferrare i concetti base. E
sono ancora più sciocchi perché non sanno che così ci condanneranno tutti. Si è
sempre ucciso per potere, conquista ed odio, è la natura umana. Non si è mai
ucciso per la paura del sapere ma essi sanno che il sapere è il potere più
forte, in grado di smuovere le montagne e cambiare la storia. Per questo lo
temono, e temono chi lo detiene. – la voce del vecchio era stanca e lontana.
ll sole era
tramontato e l’aria fresca era arrivata a portare sollievo dopo la calda
giornata estiva. Già si vedeva, appena sopra l’orizzonte, una pallida falce
di luna e a est, brillante come un diamante del deserto, Uridim, la stella del
Lupo, protettrice e guida di Hiberia; la stella che i primi abitanti del mondo,
i fondatori di Ur avevano portato con sé nel loro lungo e pericoloso viaggio
avvenuto migliaia di anni addietro. Il vecchio estrasse il bastone dal terreno
e appoggiandosi ad esso, con passi lenti, aiutato dal giovane nipote, si
diresse verso casa. I due non potevano fare tardi, quella era una sera
speciale, il ragazzo, Carlos Alberto Sàvezan, figlio di Diego Sàvezan, capo
delle guardie reali, compiva dodici anni.
– Non lo
permetterò nonno – disse Carlos un attimo prima di entrare in casa – non
permetterò che il sapere di millenni venga dimenticato, dovessi dare la mia
vita. –
Da “La Vita di
Carlos Alberto Sàvezan”
Tratta
dall’opera: “Le Cronache di Hiberia”
nella
trascrizione di frate Cashir Timacto, copista.